L’agricoltura biologica è sostenibile?

[Premessa di Antonella G.] A partire da marzo di quest’anno, sui giornali, sui social e prima ancora in Parlamento si è scatenato un dibattito piuttosto acceso sulla sostenibilità del bio, di cui ho riportato le posizioni principali in questo post: Agricoltura biologica e sostenibilità: ancora polemiche.

A qualche mese di distanza, ho chiacchierato sul tema con Luca Zanotti, produttore biologico tortonese, nonché autore di alcuni articoli per questo blog. Luca, sempre molto disponibile, si è prestato a condividere la sua esperienza, a beneficio di una discussione che merita di essere chiarita e soprattutto di eleggere (almeno!) anche i contadini tra le voci protagoniste.


Luca, ti faccio la domanda a bruciapelo. Dal tuo punto di vista, il bio è sostenibile o no?

«Anzitutto è necessaria una premessa: quello della sostenibilità va sempre considerato come un sistema complesso in generale, e ovviamente il biologico non fa eccezione. Per una valutazione oggettiva andrebbero quindi presi in considerazione almeno 3 diversi tipi di sostenibilità:

1. ambientale
2. energetica
3. economica.

La prima rappresenta il “costo” ambientale derivante dalla somma dei processi, la seconda il rapporto tra le risorse impiegate e quelle ottenute, la terza è la prova del nove finale.

1. Sostenibilità ambientale

«Di solito sotto questo capitolo si mette l’imputazione del maggior consumo di suolo, cioè: siccome le rese ad ettaro del biologico sono più basse rispetto al convenzionale, serve più superficie da coltivare. E siccome il suolo è una risorsa limitata e già carente, non è certo il caso di sprecarla per coltivazioni che non rendono, cioè che non giustificano il rapporto fra risorse impiegate e risorse ottenute.

Ora, secondo la mia esperienza – ho una coltivazione estensiva a seminativi biologici, alla quale affianco una piccola produzione di colture orticole – posso dire che le rese del biologico, oggi, sono molto vicine al convenzionale. Vuoi perché gran parte del biologico sta diventando sempre più “tecnico”, vuoi perché lo stesso metodo di coltivazione convenzionale, basato sull’uso intensivo della chimica, sta mostrando parecchi limiti.

In ogni caso, a livello di sostenibilità ambientale questo gap viene compensato dal minor impatto delle coltivazioni biologiche, che passa senz’altro dal minor consumo di risorse in genere e dall’evitare l’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi».

«Piccola parentesi: intorno al termine ‘chimico’ c’è, da sempre, un grande misunderstanding. Di fatto tutto è chimica. Le sostanze che noi contadini biologici non usiamo sono quelle ‘di sintesi’, ovvero sintetizzate artificialmente in laboratorio.

Riguardo alla diatriba tra pesticidi e uso del rame, sottoscrivo ciò che ha dichiarato la signora Mammuccini nell’articolo che tu stessa hai riportato: La verità sul bio, Mammuccini risponde alla senatrice Cattaneo».

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«Il ritratto a colori di un orto spettinato: concepire un orto davvero naturale richiede una completa revisione dei concetti di ordine e cura. L’orto naturale “fa sistema” – e funziona – solo se si riducono ai minimi termini le interferenze. Ogni eventuale intervento è da valutare con attenzione. Il monitoraggio costante è l’unica attività di prevenzione possibile. E tutte le volte che si può evitare, si evita di intervenire. Prendersi cura non significa forzare un processo o ancor più semplicemente dare l’acqua; come prestare costante attenzione non può sfociare in una mania ossessivo-compulsiva per un preconfezionato modello di ordine. La natura è in grado di mettere in moto raffinati meccanismi di autoregolazione, quando tutto convive con tutto, in una fra le possibili forme di equilibrio e ogni elemento è il necessario tassello di un puzzle».

2. Sostenibilità energetica

«A questo proposito, possiamo prendere una fra le le argomentazioni più comuni tra i detrattori del bio: come si potrebbero fertilizzare i terreni senza chimica se tutti si convertissero al biologico? Non basterebbe tutto il letame del mondo.

In realtà, come ho accennato prima, oggi il biologico sta diventando sempre più “tecnico”: per la nutrizione vegetale sono disponibili prodotti ottimizzati e calibrati, come il letame pellettato, cioè essiccato e pressato, l’humus di lombrico, oltre a validi fertilizzanti organo-minerali. Certo anche per i fertilizzanti è molto importante scegliere l’azienda produttrice: è fondamentale qui, come in altri ambiti, che la filiera sia trasparente e che le matrici organiche siano selezionate e di qualità.

Detto ciò, in biologico si cerca sempre di ridurre il più possibile gli input esterni, valorizzando quei processi che favoriscono la rigenerazione del sistema suolo. Per questo i fondamentali restano una oculata gestione del piano di rotazione (avvicendamento delle colture) e le buone pratiche agronomiche come il sovescio, volte alla produzione di preziosa sostanza organica anche fra un ciclo produttivo e l’altro».

Ma il letame è così imprescindibile?

«Diciamo di sì, almeno per quei terreni che non sono dotati di un’ottima fertilità naturale e che necessitano quindi di qualche integrazione. La sostanza organica di origine animale ha una marcia in più rispetto a quella di origine vegetale: è caratterizzata da un ben più alto grado di complessità biologica. Un buon letame maturo resta la migliore concimazione possibile: si apportano al terreno nutrienti di primissima scelta e microrganismi utili, il tutto con delle sinergie rodate e già in atto.

Come ripiego si possono adottare soluzioni alternative, spesso più difficili da mettere in pratica con successo – perlomeno su larga scala – come ad esempio l’inoculo di microrganismi utili su supporti vegetali (compost, residui colturali, sementi) e l’utilizzo di prodotti biostimolanti in diverse fasi del ciclo colturale».

3. Sostenibilità economica

«Intimamente legata alla sostenibilità ambientale e a quella energetica, è senz’altro il banco di prova finale. Perché il bio diventi davvero sostenibile economicamente a qualsiasi livello, serve un’adeguata politica dei prezzi a deciso sostegno dei produttori, attuabile a mio avviso soprattutto attraverso reali progetti di filiera – che spesso vengono solo venduti come tali dall’industria per questioni di marketing.

I contributi? Ci sono, certo. Ma il piccolo produttore in quella burocrazia affoga.

Certo anche la vendita diretta rappresenta un buon canale alternativo, ma a mio avviso deve anzitutto essere utilizzato per una graduale rieducazione del consumatore. Questo è infatti diventato soprattutto negli ultimi anni un altro diritto-dovere del produttore: raccontare il proprio prodotto significa certo spiegare come e dove viene fatto, ma anche quanto vale e soprattutto perché. A questo proposito rimando a un altro mio articolo dedicato alla questione prezzi: Ok, il prezzo è giusto: il valore dell’artigianato alimentare.

Nei miei terreni dedicati a seminativo produco soprattutto cereali e leguminose da granella, che vengono destinate all’alimentazione umana (grano tenero, farro, ceci, lenticchie) o a quella animale (orzo, pisello proteico, favino) e oleaginose (colza e girasole). Ecco, qui ad esempio per essere sostenibili economicamente c’è bisogno di un certo volume, fra l’altro non semplice da stabilire: diversamente i conti non tornano.

Tieni poi conto che anche il periodo di conversione al biologico è molto difficile: devi sottostare alle regole del bio, ma vendi al prezzo del convenzionale. I contributi? Per fortuna ci sono, certo. Ma vanno bene per le medie o grandi aziende; il piccolo in quella burocrazia affoga.

In ogni caso oggi la forbice dei prezzi tra convenzionale e bio si è ridotta, dunque il tema delle rese è cruciale innanzitutto per l’agricoltore stesso».

In conclusione?

Purtroppo oggi è difficile raggiungere la sostenibilità ambientale ed energetica senza rinunciare a quella economica, e viceversa.

«Attenzione a riempirsi la bocca con la parola sostenibilità, tanto bella quanto, come dicevo all’inizio, complessa e articolata nei suoi significati, oltre che difficile da inquadrare e mettere in pratica. Una cosa è certa: la sostenibilità non ha nulla a che fare con la politica, il marketing o la propaganda: ha a che fare solo col buon senso.

Un’altra considerazione fondamentale è che purtroppo oggi si assiste a una sostanziale incongruenza fra i vari aspetti della sostenibilità: è difficile raggiungere quella ambientale ed energetica senza rinunciare a quella economica, e viceversa. A mio avviso il biologico è un buon compromesso, e può essere considerato come un ulteriore punto di partenza.

Nel mondo del bio convivono comunque tanti approcci, anche molto diversi. Non parlo solo della differenza tra biologico “industriale” e su piccola scala, ma anche delle varie realtà e indirizzi produttivi. Per avere un quadro più completo, penso dovresti provare a coinvolgerne altri, cercando possibilmente di far affiorare sia le differenze che il filo comune che li lega.

Per cui ti invito a porre queste stesse domande ad altre realtà del mondo del bio».


Grazie Luca. Il mio blog nasce proprio come piattaforma di dialogo e discussione, tra e con i produttori. Chi si candida per rispondere alle stesse domande o raccontare la sua esperienza?

Foto di copertina: Il pianeta verza e i suoi abitanti © Luca Zanotti. Dello stesso autore anche le altre foto dell’articolo.

6 commenti su L’agricoltura biologica è sostenibile?

  1. Sono titolare di una piccola Azienda Agricola. Una di quelle Aziende come tante, dove un dipendente è un bene di lusso che non ci si può permettere, quindi tutte le incombenze (tecniche, commerciali, burocratiche) ricadono su un’unica persona.
    Noi produciamo piccoli frutti e in prevalenza mirtilli. Nella nostra zona, per ora, non ci sono particolari problematiche con la coltivazione di questa pianta, rustica al punto che non necessita di alcun trattamento con fitofarmaci. Non pratichiamo il diserbo ma lavoriamo su suolo inerbito che viene regolarmente sfalciato. Non siamo bio certificati ma lo siamo nella pratica, eppure io non sono un esaltatore del “sistema biologico”.
    Innanzi tutto vi è una confusione tale che, avere informazioni scientifiche (che dovrebbero essere inoppugnabili, delle certezze) come avete evidenziato anche voi è impossibile. E se i dati dei ricercatori sono costantemente discordanti, quali strumenti abbiamo noi consumatori e noi produttori per conoscere la verità?
    Già su questo ci sarebbe da dilungarsi e anche molto, ma mi limito a sollevare un dubbio: la ricerca scientifica (quella vera!) è lunga e costosa, spesso finanziata da privati, non è che i finanziatori stessi si muovano solo nelle direzioni che risultano più congeniali ad influenzare il mercato? non dimentichiamo che il mercato alimentare ed il mercato del biologico in termini economici hanno numeri da capogiro, però a fronte di questo le piccole e medie Aziende sono sempre più in sofferenza.

    Un altro aspetto del biologico è l’impegno burocratico che, come dicevo in premessa, per piccole Aziende, diventa quasi impossibile da gestire favorendo i grandi produttori che hanno mezzi, personale specializzato e capitali da investire.
    Il biologico è sicuramente possibile, ma non è uguale su ogni coltura, alcune richiedono una professionalità ed esperienza notevole. Spesso si esalta la figura di persone che, in virtù del richiamo della terra, cambiano vita e si improvvisano agricoltori e spesso biologici ma non dimentichiamo che ogni lavoro richiede una professionalità tanto il medico quanto l’idraulico e non meno l’agricoltore, ancora legato all’immagine del contadino di un tempo, ma che oggi deve avere competenze tecniche ed imprenditoriali specifiche.

    Concludo per paura di essermi dilungato con un’ultima riflessione: il biologico probabilmente è sostenibile, magari non da tutti; ma è veramente utile?
    Molti dei miei clienti sanno esattamente quanti litri d’acqua servono per produrre un chilo di carne ma restano basiti quando scoprono che le mucche (come tutti i mammiferi) producono latte solo dopo aver partorito! Nessuno si interroga su quanti litri d’acqua e quale sia l’impatto ambientale per costruire uno smartphone, strumento utilissimo ma che forse non servirebbe cambiare ogni bimestre! E’ vero che a volte gli agricoltori vengono considerati degli sciagurati che godono nell’avvelenare il cibo e la terra. Ricordiamo però che l’Italia in termini di normative e conseguente residui chimici nel cibo, è un’eccellenza mondiale (parlando di agricoltura convenzionale) ma spesso cerchiamo le fragole biologiche e mangiamo il riso che arriva da paesi con tassi d’inquinamento disastrosi.

    Quindi forse il punto da cui si dovrebbe partire è una seria informazione ed educazione rivolta alle persone, ma come voi stessi avete evidenziato questo sembra impossibile.
    Inoltre, e lo vedo nella nostra quotidianità, molti si professano amanti della campagna e del territorio ma, quando proponiamo la raccolta diretta di frutta e verdura, l’erba non perfettamente tagliata, la presenza di insetti, il caldo, il fatto che non abbiamo strutture ombreggianti per le auto ed un parcheggio asfaltato diventa un elemento ostativo.
    Fino ad una madre che impedì al figlio di mangiare le fragole direttamente dalla pianta perchè non igieniche ….”sono a terra!” disse schifata!

    1. Grazie Pier Andrea per gli ulteriori spunti di riflessione! Condividiamo diversi pensieri (probabilmente perché cerchiamo di utilizzare più che altro il buon senso come filtro, cercando di andare un po’ oltre un qualsiasi schema di pensiero rigido dettato da un metodo piuttosto che da un altro)!

      Premesso che ovviamente nutro grande rispetto per chi fa biologico in generale (certificato o meno alla fine poco cambia nella sostanza a livello di sostenibilità), io mi ritengo un sostenitore del “sistema bio” nella sua interezza (quindi compresa certificazione e compagnia bella) in quanto di fatto è l’unico capace di dare reali garanzie a tutti su prodotto e processo. Ovvero: la certificazione può star simpatica o meno (già è senz’altro un ulteriore impegno dal punto di vista burocratico) ma resta comunque l’unico “pezzo di carta” che si può impugnare per legittimare il valore del proprio lavoro. Quindi sull’utilità del sistema, secondo me sì, è utile: alla fine i controlli ci sono, la tracciabilità è assicurata, tutti gli operatori sono registrati. Senz’altro si può migliorare parecchio, ma è comunque un buon punto di partenza.

      Sorrido di fronte all’ultima parte del suo commento: suona tutto estremamente familiare! Purtroppo capita sempre a noi produttori di verificare quanto a questo mondo conti più la forma della sostanza (e di quanto sia bella la campagna fino a quando non si scopre che è fatta di polvere d’estate e fango d’inverno). Un altro punto cruciale è anche questo (e ho cercato di farlo emergere nell’articolo, parlando di vendita diretta): è difficile comunicare con efficacia, consapevolizzare e rieducare le persone (e quindi ancor prima, riavvicinarle alla terra)!

  2. Altra domanda: quando dici che il letame è il migliore concime possibile, penso sempre che l’allevamento – in base a quanto leggo da più parti – è uno dei principali imputati in termini di sostenibilità, efficienza, responsabilità verso il cambiamento climatico ecc. Dunque ti chiedo: se l’allevamento è di per sé insostenibile, come può il letame essere un input sostenibile?

    1. In realtà non credo che gli allevamenti siano insostenibili a prescindere. Abbiamo già intuito di quali e quante sfumature si compone la sostenibilità; dunque l’allevamento può essere a ragione considerato insostenibile per come viene concepito e praticato intensivamente al giorno d’oggi: un’attività altamente specializzata, caratterizzata da innumerevoli forzature e lontana anni luce dalla sua dimensione originaria.

      Ma l’allevamento ha origini antichissime – probabilmente persino più antiche dell’agricoltura stessa – ed è sempre stata un’attività complementare necessaria, integrata e assolutamente sostenibile, inserita nell’attività agricola in un ciclo chiuso perfetto, dove i concetti di scarto e di rifiuto, per come li intendiamo oggi (qualcosa di inquinante e da smaltire) non avevano motivo di esistere. E tutto questo valeva ancora fino a una manciata di anni fa.

      Idealmente, un sistema davvero sostenibile è in grado di gestire il proprio funzionamento in completa autonomia, senza bisogno di input esterni e senza produrre scarti che necessitano di un successivo smaltimento: tutto è trasformato, riciclato di continuo. Se un elemento perde la propria funzione originaria è solo per acquisirne un’altra, mantenendo sempre un’intrinseca utilità: così non ha modo di diventare un rifiuto, ovvero qualcosa di non più necessario. La fedele riproduzione di questo schema si può osservare nelle dinamiche di un qualsiasi ecosistema naturale, dove, secondo una grande legge, “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

      A questo punto è facile intuire la funzione dell’allevamento in un sistema agricolo, dove gli animali allevati si nutrono degli “scarti” dei prodotti (o dei sottoprodotti di lavorazione) destinati all’alimentazione umana, trasformandoli in prezioso letame, per concimare proprio gli stessi campi in cui quelle derrate vengono prodotte; mentre primariamente forniscono cibo (latte, uova, carne) e fibre tessili. Fino a poco più di mezzo secolo fa erano anche instancabili e preziosi compagni di lavoro, inserendosi ancora una volta perfettamente nel sistema di produzione.

      Alla luce di tutto ciò, l’allevamento si può ancora definire insostenibile a prescindere? O forse andrebbe prima ripensato qualche altro paradigma?

      Parlo al netto di questioni etiche – ci tengo a dire che ho molto rispetto per chi fa una scelta vegetariana o vegana – suggerendoti di dedicare a questo argomento un articolo a parte.

      Insomma: per l’allevamento, proprio come per l’agricoltura, penso che la sostenibilità sia soprattutto una questione di metodo. Va detto che in ogni caso entrambe restano attività produttive ed economiche, e come tali è inevitabile che provochino un minimo di impatto, a diversi livelli; per questo è molto importante attuare mirate azioni mitiganti e compensative.

  3. Grazie Luca per questo tuo contributo, da ‘voce in campo’.

    Ieri era Capodanno e ho fatto una lunga camminata inaugurale qui intorno. Mentre passeggiavo, ho ascoltato alcuni podcast che avevo arretrati e uno di questi – benemerita Radio 3 – parlava proprio dei vari aspetti della sostenibilità. Ne nominavano uno, che mi è piaciuto tantissimo, che è la sostenibilità sociale, altrimenti detta coesione sociale. Credo che sia un altro fattore molto importante e lo aggiungo come spunto in coda, richiamandomi peraltro al tuo articolo sul mercato contadino, in cui parlavi del valore della piazza, della consapevolezza e della rete locale.

    Sarebbe probabilmente ingenuo pensare che riavvitare tutto sui distretti locali sia la soluzione, ma io credo che sia almeno parte di una transizione possibile, che contempli tutti e 3 i fattori che citi, aggiungendo anche un valore culturale, sociale e relazionale inestimabile.

    Spero non suoni troppo retorico. È un’esperienza che, come sai, sto facendo da qualche anno. In poche parole: decido di sostenere, con i miei acquisti, la sostenibilità di cui voi produttori vi fate carico. Questa la mia scelta da acquirente.

    1. Assolutamente. Magari più che altro può essere considerato un (immenso) valore aggiunto, che si genera proprio da quei processi che sono soliti prendere in considerazione più aspetti della sostenibilità. La “coesione sociale” è un prodotto, un risultato; si inserisce in un circolo virtuoso che coinvolge tutti gli attori in scena nella stessa misura.

      Il rilancio e la valorizzazione delle produzioni, dei distretti e delle filiere locali deve soprattutto mirare a questo e del resto proprio a questo mi riferivo parlando del canale “vendita diretta”. Spesso infatti può non essere così interessante dal punto di vista economico, ma lo è sempre per la reazione che innesca: l’obiettivo deve’essere la creazione di una rete, di un rapporto di fiducia.

      L’opportunità per chi acquista di poter avere qualsiasi informazione si possa desiderare su questo o quel prodotto e dall’altra parte quel diritto-dovere del produttore, che si impegna a fornirle in prima persona, raccontando ciò che fa. Da qui passa quella “graduale rieducazione del consumatore”, che deve tornare ad essere attivo nelle scelte e nella conoscenza e comprensione di alcune dinamiche, acquisendo una sempre maggior consapevolezza.

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