Cari amici Considerosi,
ecco la seconda puntata del nostro post sulla questione cera-mele-bio.
Nel frattempo, abbiamo avuto la fortuna di chiacchierare con la signora Caterina Bonetti di Biomela, azienda trentina, anzi per la precisione nònesa, che vanta una storia ultratrentennale nella produzione di mele biologiche (dal 1984, incluso un’intervallo di conduzione biodinamica).
Tra l’altro, se navighiamo sul sito di Biomela, troviamo molte perle che ci piacciono. Per esempio:
Il nostro grande impegno si basa sostanzialmente sull’esigenza di operare nel rispetto di coloro che nella nostra azienda vivono e lavorano, degli animali che la popolano, delle acque e dei venti che vi transitano, per poter preservare il patrimonio naturale per noi e le generazioni future.
Ma ce n’è una in particolare che tocca da vicino noi amanti della filiera corta:
Crediamo sia anche necessario che si modifichi il rapporto di complicità che si è creato tra la ‘società dei consumi’ e i ‘produttori’. La spinta a produrre sempre di più a un prezzo inferiore ha causato fin troppi danni.
Non potremmo essere più d’accordo. Ora però torniamo all’argomento clou, la pruina.
Signora Bonetti, cosa possiamo dire ai nostri lettori a proposito della supposta ceratura applicata sulle mele anche nel bio?
È una bufala clamorosa. Anche se fossero ammesse cere naturali nel biologico, nessuno le userebbe, perché non servono, nemmeno per migliorarne la vendita. Ogni operazione in più… costa, e i costi oggi per i produttori sono una tragedia.
Non inceriamo le mele, perché sulla buccia la cera ce l’hanno già. Si chiama pruina ed è una sostanza cerosa e impermeabile, prodotta da frutto e foglie, che serve a proteggersi dagli agenti atmosferici durante lo sviluppo.
La mela è un frutto che ha un tempo di formazione lunghissimo, da marzo a novembre: deve affrontare numerose stagioni, temperature, intemperie. In primavera le meline hanno la pelle delicata come i bebè, persino pelosetta; solo in seguito producono la pruina, e mano a mano sempre di più nella stagione, per proteggersi dalla pioggia e dal sole.
Non c’è trucco e non c’è inganno, dunque?
No. Nel bio il disciplinare è rigoroso: siamo rimasti ai prodotti ammessi del 1990. Anzi, ne hanno anche tolti alcuni. E dopo tutto l’impegno per riuscire a coltivare entro questi limiti, con criteri restrittivi e severi, ci facciamo del male con un po’ di cera?
L’argomento ‘cera’ sposta l’attenzione al discorso bio=truffa, che è ingiusto. Agricoltura biologica non è una semplice sostituzione di prodotti chimici di sintesi con prodotti naturali ammessi: è il tentativo della ricostruzione di equilibri biologici e anche culturali, equilibri di cui l’agricoltore è sempre stato il custode.
Come funziona la certificazione?
L’azienda che coltiva i terreni con metodo colturale biologico e che desidera vendere i suoi prodotti con un’etichetta che dichiari questa provenienza, deve farsi controllare da uno degli organismi preposti a tale compito, riconosciuto dal Ministero dell’Agricoltura.
Una certificazione deve servire a qualcosa, altrimenti tutto il sistema crollerebbe. La mia azienda è controllata:
– da un organismo di controllo (ICEA, ndr), che verifica terreni, depositi, quaderni di campagna, acquisti, vendite, lotti, etichette e tutti gli anni le analisi;
– dall’ufficio Provinciale per il biologico (di nuovo tutte le voci);
– da Agecontrol, l’Agenzia pubblica per i controlli in agricoltura;
– dalle ASL;
– dagli ispettori/tecnici che alcuni clienti ci impongono.
È sufficiente?
Cosa vuole dire, in conclusione, ai nostri lettori?
Attenti alla disinformazione. Se deve esserci una rivoluzione culturale da parte dei produttori, occorre che il medesimo cambiamento lo affrontino anche i consumatori. Serve da parte loro più attenzione al nostro lavoro.
Altra osservazione, a corollario: più di un terzo della produzione agricola mondiale viene distrutto e spesso lasciato direttamente sui campi perché difetta delle caratteristiche estetiche richieste dal mercato. Le persone che vengono in azienda si stupiscono della mole di lavoro che sta dietro alla produzione di una mela. Allora, prima di buttare una mela che ha un puntino sulla buccia, ma il cui gusto è buono, pensate a tutto il lavoro che c’è dietro.
Faccio un ultimo commento sulla conclusione del suo articolo: peccato non mangiare la buccia, non lo consiglio a nessuno. In alcune varietà, tra l’altro, il gusto è proprio nella buccia e nei primi millimetri di polpa del sotto-buccia. [Consiglio che trova concorde anche Susanna, la nostra terapeuta nutrizionale, che elogia qui tutti i pregi della mela, buccia inclusa, ndr].
Ne terrò conto :)
Grazie Signora Bonetti, da parte di tutti noi. Continui così, e buon lavoro!
Per chi si fosse perso la puntata precedente sull’argomento Apple Coating, reale o presunta, può trovare qui la prima parte.
PS. Per i pomo-patiti e pomo-dipendenti come me, consulta la scheda con i contatti di Biomela: l’azienda vende sia in loco, sia on line.
non credo a queste parole. io ho alberi di mele e non c’è nessuna sostanza simile alla c’era. ma quando compro mele biologiche si appiccicano alle mani.
Purtroppo la cera della mela non basta mai.se no le mele non durano anche una settimana. Invece le mele degli agricoltori “onesti”durano anche due anni.come mai?