Tutto ciò che è buono è bio? E tutto ciò che è bio è buono? È una questione di soglie di attenzione.
L’argomento è delicato. Ne affrontai già alcune insidie e ambiguità durante la stesura dei Criteri di inclusione dei produttori nella Guida di Considerovalore.
Il settore del bio è continuamente in crescita; leggi la sintesi dei dati 2018, redatta dal Sana. Diamo pure per scontate le cause buone (esigenza di una maggior salubrità del prodotto, istanza ecologico-ambientale), e focalizziamoci su almeno 2 conseguenze rilevanti:
- Dove il trend è positivo, c’è un aumento di consumi e dunque di domanda. Ma spesso è una domanda formulata in scia a una tendenza, poco ponderata e consapevole. In questo caso potrebbe anche essere una cosa positiva, dato che è una domanda che chiede un sistema di produzione più virtuoso.
- Dove c’è un aumento di domanda, l’offerta si organizza, approfittando di una sorta di leva. Va da sé che parte di quell’offerta potrebbe essere inquinata: vuoi da una non completa integrità dei fini, vuoi da un contesto che induce l’acquirente a ritenere il prodotto come salutare, ‘approvabile’, al lordo di una serie di considerazioni o attenzioni. Sono i rischi del successo.
Esempio: se sulla confezione il prodotto è indicato come “biologico”, ma l’etichetta è un elenco interminabile di ingredienti che, direbbe Michael Pollan, la nostra bisnonna non riconoscerebbe, allora forse conviene lasciarlo sullo scaffale. Ciò che è biologico dal punto di vista normativo non è necessariamente ‘salutare’.
Un’altra contraddizione si verifica quando il prodotto biologico contiene ingredienti che giungono da molto lontano, sfavorendo del tutto la filiera locale. C’è da interrogarsi se l’acquisto risulti davvero virtuoso. Per esempio, avete fatto caso a quanto biologico non dico italiano, non dico extra UE, ma asiatico approda sugli scaffali dei nostri bio-market?
Per questi motivi, a mio parere, nessun etichetta o bollino può sostituirsi ai necessari strumenti di valutazione e discernimento di cui ciascuno deve dotarsi, accurati e flessibili allo stesso tempo.
E questo al netto della questione ‘frodi’, che affiorano con una certa regolarità anche dal mondo del bio (e non solo in Italia), sulle quali rimando alla nutrita categoria di articoli del “Fatto Alimentare”. Le frodi dimostrano due cose opposte:
- che la legislazione e le certificazioni sono, da sole, strumenti insufficienti a tutelarci
- che c’è sempre chi ci vuole fregare, ma ogni tanto c’è chi se ne accorge, per fortuna.
Peccato che le mele marce declassino anche il resto del mercato e magari una miriade di piccole, oneste, autentiche realtà biologiche.
L’appiglio secondo me è davvero da un’altra parte; cioè la relazione, la conoscenza diretta dei produttori: quella che io chiamo volentieri ‘spesa umana’. Nessuno mi toglie dalla testa che, più aumentano gli intermediari e più diminuiscono le garanzie.
Nessun bollino può sostituirsi agli strumenti di valutazione e discernimento di cui ciascuno deve dotarsi, accurati e flessibili allo stesso tempo.
Tempo fa lessi conclusioni molto simili in un bell’articolo di Stefano Spillare, che evidenziava come i nostri bisogni non possano certo fermarsi alla certificazione, essendo «bisogni di relazione, di conoscenza diretta e di fiducia, riassumibili in una crescente voglia di comunità e di collaborazione» (fonte “La vita bio”, magazine dell’ente certificatore Qualità Reale).
Analogamente, condivido ciò che lessi a proposito di biologico in un’intervista del 2012 a Roberto Burdese, presidente onorario di Slowfood Italia, le cui parole considero tutt’ora attuali:
Per impegnarsi a costruire dei percorsi virtuosi ciascuno deve sforzarsi di non essere mero consumatore, ma co-produttore. […] Bisogna evitare il consumatore passivo, quello che, come fino a ieri comprava i grandi marchi perché si fidava, oggi passa a comprare passivamente il biologico certificato perché si fida. Non è questa la soluzione.
Dobbiamo acquisire la pazienza e la capacità di “fare lo slalom”, andando all’essenza delle cose e imparando a leggere complessità e contraddizioni. Bisogna, insomma, farsi gli anticorpi. […] Verrà infatti, presto, un giorno in cui i consumatori non saranno più soddisfatti della sola certificazione, ma vorranno sapere di più. Serve dunque, innanzitutto, fare cultura e informazione.
Cultura e informazione: ingredienti immateriali e non dichiarabili in etichetta, ma quanto mai veicolo di conoscenza e salute alimentare. Che ne pensate?