I segreti della farine di mais svelati grazie all’intervista con un piccolo produttore ferrarese di mais ottofile tradizionale (non ibrido) e biologico.
A volte capita di presentarsi con l’intenzione di conquistare, e di uscirne sedotti. Ma non abbandonati. Ecco cosa ci è successo chiacchierando con Giorgio Donati dell’Azienda Agricola Fondo Bartolo di Porotto, nell’alto ferrarese, produttore biologico che mi ha subito appassionato per la sua preparazione e serietà di approccio, e per la generosità con cui ha voluto condividere la sua cultura ed esperienza.
In questo articolo, Giorgio si è reso disponibile a darci qualche dritta sulla produzione del mais e delle relative farine.
Argomenti clou: differenza tra ibridi e varietà antiche; cosa significa se il mais è stato “macinato a pietra” o “essicato al sole” e quale impatto hanno queste caratteristiche sulla qualità nutrizionale dello sfarinato; dimensione aziendale come condizione necessaria, ma non sufficiente, per avere garanzia di qualità; questione ogm ecc.
Giorgio, mi ha molto colpito una sua frase sul mais: «Si fa meno fatica a produrlo, che a trovarlo buono». Cioè?
In primavera le pianure ferraresi, così come quelle rodigine* e mantovane confinanti, sono colorate da alte piante di mais, verde scuro e robusto. Nell’ottanta per cento dei casi, però, quello che vediamo è mais ad uso zootecnico, con una recente impennata del mais a uso trinciato per biogas.
Tradotto: nelle zone tra le più vocate per la coltivazione dei cereali, non si coltiva mais che finisce sulle nostre tavole, se non indirettamente per l’uso zootecnico che se ne fa, attraverso il mangime per le vacche (il cosiddetto “pastone”).
La produzione di mais da polenta è sicuramente ancora presente in varie zone del nord e centro Italia. Anche in questo caso, però, gli ibridi moderni promettono più quintali e maggiori resistenze a malattie e minacce esterne… ma il risultato è pur sempre un prodotto da grande distribuzione, raffinato e spesso precotto: la classica farina di mais un po’ anonima del supermercato.
Solo poche realtà, e in pianura oserei dire pochissime, svolgono un lavoro di recupero delle varietà tradizionali non ibride, di qualità elevata, lavorandole come si faceva un tempo.
Il mais arriva sulle nostre tavole sotto forma di farina. Di quali proprietà dobbiamo accertarci, quando leggiamo le etichette delle confezioni o, ancora meglio, parlando con voi produttori?
Questa non è certo una domanda da poco. Si potrebbe immaginare una sorta di checklist, dove a ogni voce corrisponde un punto a favore della genuinità del prodotto. Per ogni voce, però, ci sono un pro e un contro… giusto per mettere in chiaro sin da subito che nessuna caratteristica, da sola, offre una certezza. Prendiamo in considerazione gli elementi principali.

- L’azienda produttrice
Si potrebbe pensare che più l’azienda è piccola, locale, “familiare”, più il prodotto è sostenibile e genuino. Ma non è sempre così.
È statisticamente vero che i prodotti di nicchia provengono da piccole aziende, soprattutto per quanto riguarda le realtà montane. Ma spesso anche le piccole aziende si affidano a ibridi che, per quanto promettano risultati qualitativi buoni, saranno sempre prodotti con caratteristiche non peculiari e di bassa qualità.
In pianura, è sufficiente qualche ettaro di terra per avere alte produzioni di mais con gli ibridi. Con tali quantità è più facile trovare mulini disposti a lavorare il cereale, con annessa raffinatura, macinazione fine a cilindri e precottura (per fare la “polenta istantanea”).
- La varietà antiche o tradizionali
Le varietà antiche (ottofile, pignolet, quarantina, marano) offrono sapori dimenticati, forti, complessi, con il pregio di avere, spesso, caratteristiche organolettiche più interessanti.
Dietro alle varietà tradizionali c’è, inoltre, un lavoro culturale unico, di recupero della biodiversità e di valorizzazione di prodotti tipici, dimenticati in favore dei ben più produttivi ibridi americani. È importante informarsi, e con internet è molto più facile.
La riscoperta delle varietà antiche, per contro, ha spinto alcune grandi aziende a produrre farine di questo tipo; scelta che però, spesso, non è accompagnata da una scelta di campo sulla sostenibilità, altro punto fondamentale della checklist.
- Le pratiche agricole
A mio modo di vedere, l’agricoltura di qualità va di pari passo con l’agricoltura sostenibile. Anche da un punto di vista economico il discorso torna: con pratiche “antiche” e in generale non impattanti sull’ambiente, si produce di meno; producendo di meno, conviene valorizzare il prodotto, che sarà di nicchia e destinato a un suo mercato di riferimento.
La concimazione naturale, non “spinta”, della coltura, un’accorta tecnica di irrigazione, le cure naturali e l’intervento mirato e solo quando serve: questi sono gli elementi da tener in mente per ottenere un ottimo prodotto, dotato di caratteristiche organolettiche superiori e coltivato col minimo impatto sull’ambiente.
Certo che, magari, non sempre è facile sapere tutto questo, e spesso il cliente non conosce nemmeno questi termini né – giustamente – il processo produttivo delle colture. A ciò dovrebbe servire la certificazione biologica: garantire un metodo di produzione sostenibile a terzi.
- La certificazione biologica
Anche qui però sorgono problemi. L’agricoltura biologica è sempre più un business: esistono grandi aziende che si “buttano” nel mercato del bio; per venire incontro a questa realtà, esistono sempre più prodotti ammessi, e molti di questi, pur meno impattanti e non di sintesi chimica, vanno usati con molta prudenza, altrimenti si crea una sorta di produzione industriale pericolosamente simile all’agricoltura convenzionale.
Senza puntare il dito contro nessuno, inoltre, la necessità di fornire sempre più prodotto certificato bio a un mercato in crescita crea fenomeni di bio “mascherato”, “furbetto”, dove le aziende sono perfettamente a norma sulla (enorme quantità) di carte, poi magari diserbano in gran segreto…
Ndr: a questo proposito ci siamo già espressi nel post È logico, è bio. Se però conosci i produttori.
- La lavorazione del prodotto
E qui si tocca un punto veramente fondamentale, per me imprescindibile: le fasi finali della produzione e la trasformazione. Le pratiche messe in atto in queste fasi rispondono a due esigenze fondamentali: una di ordine “sanitario”; l’altra riguardante il gusto e le qualità organolettiche.
La selezione manuale fin dal campo, prima della raccolta (e non necessariamente intendendo “raccolta manuale”) e poi di nuovo a raccolta effettuata, aiuta in modo decisivo ad abbattere il rischio di presenza di micotossine: si scartano tutte le pannocchie ammuffite o colpite evidentemente dall’attacco di insetti.
Poi, importantissima, la fase di essiccazione. Esistono buone farine, tipiche di certe zone del nord Italia, con tutte le “carte in regola”, che però, per motivi di quantità ingenti di prodotto e necessità di immissione rapida sul mercato vengono essiccate con il metodo veloce, in essicatoio: prima della macinazione, la granella viene sottoposta a soffi d’aria a 50 gradi, raggiungendo bassi livelli di umidità in 24 ore.
In questo modo, la farina si presenterà più polverizzata, il prodotto finito avrà una resa inferiore e questa sorta di “precottura” a bassa temperatura si porterà via parte delle caratteristiche organolettiche e soprattutto del sapore e della dolcezza del mais.
È assolutamente da preferire un’essiccazione naturale al sole e all’aria, che con una lenta e delicata azione naturale donerà una farina più ricca di sapore, meglio conservabile, profumata e nutriente.
Infine, la macinazione. La macina a pietra produce una farina naturalmente più rustica, profumata e consistente, e non scalda eccessivamente la granella, evitando i problemi di cui sopra. Da preferire inoltre un prodotto poco raffinato che, oltre agli elementi nutritivi in più, offre sapore e consistenza, a fronte delle tante farine di mais commerciale che assomigliano più a semolino che a polenta.
Si parla tanto di mais ogm. A che punto è la situazione in Italia: in quale direzione stiamo andando e quali sono i rischi che corriamo?
L’ogm è “dietro l’angolo”, in Italia. Pur vigendo un divieto espresso di coltivare varietà ogm, l’importazione è ammessa e gli ibridi americani producono tanto, si ammalano poco e garantiscono performance adatte alle famose “esigenze del mercato”.
Arrivano tonnellate di prodotto ogm con cui si ottengono mangimi a uso zootecnico e così l’ogm, sbattuto fuori dalla porta, rientra dalla finestra. Carne e latte, anche italiani da allevamenti italiani, provengono da alimentazione geneticamente modificata.
Questo discorso, ampio e complesso, tuttavia non riguarda la produzione di farina domestica, ma soprattutto le varietà a uso zootecnico.
In conclusione, cosa si sentirebbe di consigliare ai lettori di ConsideroValore?
La cosa fondamentale è conoscere chi produce ciò che mangiamo, e di conseguenza essere nella condizione di saperne di più su tutte le caratteristiche sopra elencate: la conoscenza vale più di mille certificazioni!
L’assaggio, infine, non inganna: la qualità è frutto di sacrifici.
Al prossimo post, chiederemo a Giorgio la ricetta per un’ottima polenta :-)
Intervista a Giorgio Donati
Azienda Agricola Giorgio Donati, Porotto (FE)
Cara Antonella ottimo articolo, mi fa piacere leggerti e vedere che il fantastico progetto di Considerovalore è partito alla grande!
Buon lavoro e buona, buona informazione consapevole!!
Grazie Sara, il tuo giudizio positivo mi onora! Sono io, per prima, una fan di http://coachalimentare.it, dalle linee guida alle ricette :-)
Sempre più persone iniziano a pensare alla loro salute, quindi: Grazie, grazie di cuore per tutte queste notizie.