La protesta del latte vista con gli occhi di una contadina sarda
Antefatto: l’altro giorno, dopo aver visto The Milk System, a mio parere un documentario illuminante per capire la questione del conferimento del latte e la protesta degli allevatori sardi (protesta di questi giorni, ma periodicamente ricorrente), ho fatto qualche stories su Instagram per tentare di mettere a fuoco l’argomento. Diversi produttori e piccoli allevatori hanno reagito e rilanciato la questione, portando il proprio contributo.
Tra questi, mi ha contattato anche Fabiola Dettori, anima femminile di Pacha Mama, una piccola azienda agricola di Bari Sardo (NU) che coltiva ortaggi con metodo biologico e li vende direttamente ai privati, avendo rinunciato al conferimento all’ingrosso a favore del km zero. Fabiola è una contadina che crede nelle piccole filiere, nella microimprenditorialità, nella valorizzazione del prodotto e del territorio.
Con Fabiola è stata una chiacchierata fiume. All’inizio non sapevo bene cosa aspettarmi, ma la sola idea di poter ascoltare dal vivo un produttore sardo in questo momento così caldo, mi ha attivato tutte le antenne. Per chi avrà tempo e desiderio di leggere, ecco un punto di vista interno – nel senso di sardo, e nel senso di interno al settore, anche se di un comparto contiguo.
[Fabiola D.] Vorrei fare un discorso un po’ lunghetto.
[Io] Fattibile?
Se sei disposta ad ascoltare. Non vorrei dire qualcosa che possa essere facilmente manipolato o che suoni accusatorio o impopolare. Da sarda, forse sono troppo emotivamente coinvolta per vedere la questione con lucidità.
La cosa che apprezzo di questo momento è che sta unendo una popolazione che difficilmente si unisce per qualcosa. La maggior parte delle volte ognuno vive in un mondo a sé, invece stavolta c’è stata davvero coesione. Spero si protragga nel tempo.
Quello che invece temo è che queste proteste diventino mangime per le elezioni. La mia paura è che, come è già successo, ai pastori venga dato un semplice contentino, in cambio di una manciata di voti. Tante altre volte sono insorte lamentele forti che poi sono state tutte messe a tacere, durante le elezioni, con questi mangimi (di denaro, intendo). Rialzi del latte momentanei, che durano un paio d’anni, per poi ricrollare e lasciare i pastori punto e a capo. Ma sono sempre rialzi di pochi centesimi, mai un vero riconoscimento del valore.
Credo che sia impensabile pagare così poco il latte: equivale a non dare valore all’operato umano. Ci dovrebbe essere una legge che controlla queste cose: lo Stato dovrebbe essere il primo a basarsi sul valore del lavoro [come peraltro proclama la Costituzione, ndr]. Non è possibile arrivare a far scegliere al mercato il prezzo di 60 centesimi: è aberrante, ti toglie la dignità umana. Come minimo dovrebbero essere coperte le spese di produzione, cosa che oggi non è; ma non sarebbe comunque sufficiente.
Però c’è anche un’altra cosa. Uno dei problemi legati alla pastorizia sarda è che, non essendoci unione, non si riescono a creare cooperative con cui dividere le spese di trasformazione. Collaborare permetterebbe di dare valore al prodotto rendendolo tipico, con una denominazione locale o delle certificazioni dop. Dico la verità, nemmeno io saprei da dove iniziare a creare una cooperativa. Perché non basta essere dei bravi produttori, servono anche altre competenze: ci vuole la capacità imprenditoriale di immettersi sul mercato, di capire come funziona e vendere.
Fare cooperative vorrebbe dire anche creare una differenziazione migliore dell’offerta. Se tutto il latte non fosse conferito solo per fare il pecorino romano, ogni cooperativa potrebbe specializzarsi in un prodotto diverso. E magari avere al suo interno uno specialista di marketing, un esperto di comunicazione o un commerciale per aiutare a capire come proporre e collocare la propria specificità.
Grazie per sottolineare la possibilità di un connubio tra comunicazione e piccola agricoltura, in cui anch’io credo molto. Ma le cose non stanno un po’ cambiando?
Piano piano sì. Però questo è lo specchio di come a tutt’oggi stanno le cose. Finché non si va alla radice, il problema si ripresenterà tale e quale.
Anch’io sono nel settore agricolo e anch’io, come gli allevatori, subisco i prezzi di mercato, soprattutto se non mi occupo personalmente della vendita diretta, ma porto la verdura all’ingrosso, che equivale al conferimento del latte dei pastori ad altre aziende che fanno la trasformazione. Vent’anni fa, chi faceva ortive le portava all’ingrosso per lo smercio. I contadini si occupavano esclusivamente della produzione, non della vendita; proprio come i pastori che vendono il latte. Prima però l’ingrosso pagava bene i prodotti, perché non c’erano queste importazioni massicce, dunque le famiglie vivevano bene così, senza doversi preoccupare anche della trasformazione o della vendita.
Anche noi il primo anno, in cui ancora non ci eravamo fatti conoscere, avevamo portato all’ingrosso 100 chili di zucchine. E sai quanto ci avevano dato? 35 euro! Lì verdure come lattughe, zucchine… arrivano a 35/50 centesimi al chilo massimo. Non ne vale davvero la pena, non abbiamo mai più portato nulla all’ingrosso. Ora vendiamo tutto ai privati, presso il nostro spaccio o con le consegne a domicilio.
Gli indennizzi della Comunità Europea
Un’altra cosa che viene spesso rinfacciata ai pastori, per cui c’è sempre questa diatriba nel nostro settore, è il fatto che la comunità europea riconosca loro degli indennizzi. La UE sa benissimo che il lavoro degli allevatori non è riconosciuto in termini economici e che il latte non viene pagato a sufficienza, perciò i pastori vengono indennizzati su molte perdite e anche sul mancato guadagno.
Non è che gli allevatori non si meritino i contributi e le agevolazioni, è che anche altre persone dello stesso settore avrebbero bisogno di sostegno. Quello che a noi contadini a volte dà fastidio è che, quando facciamo richiesta di risarcimento – per esempio per la siccità – la priorità venga data sempre agli allevatori.
Mi rendo conto che questa, però, è la classica lotta tra poveri, che non ha mai aiutato nessuno. Sono discorsi tra miseri, di chi guarda il piatto dell’altro perché il suo in quel momento è vuoto.
Ma un sistema non si può reggere sugli incentivi, o sbaglio?
I rimborsi servono perché non c’è equità nel riconoscimento del lavoro. I pastori ti dicono: «Chiedo questi risarcimenti, perché il prodotto non mi viene pagato». Certo, ma se io potessi diventare impresa, e vendere il mio prodotto per quello che vale, non me ne fregherebbe nulla di avere i rimborsi.
La distribuzione gratuita del latte: un’occasione mancata
Un’altra cosa che mi fa uscire fuori di testa è che adesso i pastori, avendo tutto questo latte che non vogliono conferire, ne stanno regalando. Cioè fanno il formaggio e lo regalano… Non capisco nemmeno come facciano le persone a prendere quel latte gratuitamente, senza dar loro nulla in cambio. Per facciata gli dicono: «Ti sostengo, continuate la lotta», poi però non li sostengono economicamente.
Questa semmai dovrebbe essere l’occasione per riavvicinarci ai produttori, capire che produzioni hanno e quando, e pagargliele. È il momento di indurli a trasformare loro il latte e di riconoscere il loro lavoro come si deve, non certo approfittarne perché lo stanno buttando!
Vedo un sacco di pagine Facebook “Sosteniamo i nostri pastori”, poi magari si fanno regalare il latte o il formaggio. Sostenerli vuol dire fare una rete, fare in modo che, se fanno il formaggio, sei pronto a comprarglielo, magari crei un bel gruppo di 15 persone per ciascun pastore, così ogni volta riesce a vendere qualcosina. Invece no, tutti bravi a scrivere post su FB. La prima cosa in questo momento, secondo me, è fargli fare il formaggio e comprarglielo, non aspettare che te lo regalino. Secondo me questa è una mancanza di rispetto, pari a quella dei 60 centesimi al litro.
Se vuoi sostenere davvero il produttore, devi comprare dal produttore.
Spero che si renda partecipe la popolazione del fatto che, se vuoi sostenere davvero il produttore, devi comprare dal produttore, devi riuscire a dargli un sostegno concreto. Basterebbe poco, non dico tanto, ma tipo un broadcast su whatsapp in cui lui può avvisare quando ha la ricotta e un piccolo gruppo gliela compra regolarmente.
Stamattina su Radio 3, a Prima Pagina ho sentito l’intervento di una persona che si indignava del fatto che il latte fosse versato, anziché donato alla Caritas o ai circuiti caritativi. Ho pensato: ma se lo dai ai circuiti caritativi, chi verrà mai a sapere di tutto questo? Di solito quando si fa qualcosa di buono, e tanto più se viene fatto con dignità, difficilmente lo si viene a sapere, perché non fa clamore. Mai più mi immaginavo che i potenziali acquirenti si candidassero a fare da Caritas…
Sì, è capitato. Molti pastori lo regalano e trovo sconcertante che le persone, sapendo la situazione in cui sono, accettino. Mi sembra proprio uno sciacallaggio, o almeno io la vivo così. Speravo che questa cosa si potesse gestire un po’ diversamente.
Il fatto che ci si indigni di fronte agli sprechi è come quando ti indico la luna e tu mi guardi la mano. Nella filiera di qualsiasi produzione c’è spreco, anche in quella agricola. Sai quante lattughe sprecate nel terreno?
Ma le lattughe almeno non si decompongono a nutrire il suolo?
Certo, e danno da mangiare ai lombrichi. Però sono sicura che ci sarebbe chi, vedendo questa cosa, la considererebbe uno spreco. Lo spreco è un concetto relativo. Anche regalare il latte è uno spreco, perché il pastore lo sta comunque perdendo, magari dopo aver aspettato tanti mesi prima che le sue pecore lo producessero.
Ti faccio un esempio: quando c’è il boom delle ortive, zucchine e cetrioli producono anche 50 chili al giorno. Tanti produttori – non è il mio caso – hanno i maiali, perché sono animali che ti mangiano quintali, persino tonnellate di verdure invendute. Se l’ingrosso non ti ritira tutta questa merce, i contadini che non riescono a vendere al dettaglio la danno ai maiali. Anche questo è uno spreco, se pensi alla fame nel mondo.
La protesta fa male e deve far male. È lì che capisci che è una cosa che sta ledendo te, il pastore e l’intera comunità.
Sono discorsi che per me lasciano il tempo che trovano. Anche perché poi non ha più senso la protesta. La protesta fa male, deve far male. Vedere il latte sprecato ti deve far male, perché è lì che capisci che è una cosa che sta ledendo tutti: te, il pastore e l’intera comunità
Ho visto un tot agrumeti e meloneti rovesciati a marcire nel Sud Italia… Anche lì è un problema di filiera lunga e di scarso potere negoziale dei produttori, che sono il primo anello di una catena lunghissima.
La realtà dell’esubero non regalato fa parte dell’agricoltura. Non puoi saturare il mercato, non è corretto neanche verso i tuoi colleghi. Io capisco i produttori che preferiscono dar da mangiare agli animali che regalare le eccedenze. In questi piccoli paesini, dove siamo 4mila anime, ci vuole davvero poco a creare un problema a un collega. Poi, ti dico la verità, qui non c’è neanche tanto modo di dare agli enti benefici…
L’insularità e il cambiamento
Nella mia vita, i periodi brutti o negativi (anche le zucchine pagate 30 centesimi al chilo, per esempio) sono sempre stati momenti di cambiamento. Se capisco che una cosa non funziona, posso pensare di fare qualcosa di diverso e ottenere di meglio. Nel caso del latte, ho paura che sia un continuo ripercorrere la stessa strada, con gli stessi modi, sperando invece di ottenere qualcosa di diverso.
Questo forse succede anche perché mancano gli esempi. Dobbiamo anche ammettere che noi sardi siamo chiusi: l’insularità ci ha portato a essere un’isola in un’isola. Senza un esempio, senza un precedente che funzioni o ci mostri che possiamo fare qualcosa di diverso, il rischio è di continuare sulla stessa strada anche se non porta risultati.
Se gli allevatori non si immaginano nulla di diverso dal versare il latte, non avranno nulla di diverso dal latte versato.
Per esempio, a noi internet ha aiutato tantissimo, perché ci ha fatto vedere un altro mondo possibile, ci ha fatto capire che potevamo tentare una direzione che fino a quel momento non c’era [Fabiola e Sergio hanno un canale YouTube che ad oggi si avvicina ai 6mila iscritti, dove condividono gioie, dolori ed errori della vita di una microazienda agricola biologica, ndr].
Secondo me questa generazione sta portando un grande cambiamento. Però è tutto sempre troppo a macchia di leopardo.
Tu credi nelle filiere locali?
Io penso che il mondo vada verso le piccole filiere, perché è l’evolversi naturale delle cose. Siamo passati dalla sussistenza al boom dell’industrializzazione e al boom delle esportazioni/importazioni: ora ci serve un bilanciamento.
Mi rendo conto benissimo che non tutto il latte prodotto possa essere assorbito nel mercato interno e che abbia bisogno comunque di un altro sbocco, oltre a quello locale. Ma le piccole filiere e la creazione di cooperative per tutelare l’esportazione mi sembrano il miglior antidoto al crollo del prezzo sotto la morsa di un mercato che oggi è completamente delocalizzato e fuori dal nostro controllo.
Quindi quello che mi auguro è non solo che il lavoro degli allevatori venga riconosciuto e pagato correttamente, ma anche che riescano a organizzarsi e imboccare una strada che li tuteli per il futuro, per evitare che il problema si ripresenti tale e quale.
La strada della cooperazione mi sembra quella più efficiente non solo per la collocazione del latte a un prezzo più equo, ma anche per una migliore diversificazione del prodotto. L’obiettivo deve essere la crescita economica dei pastori, in proporzione alla crescita di tutto il comparto.
Spero che questo rappresenti il punto di inizio per qualcosa di più grande. Non credo basti semplicemente proseguire sulla stessa strada, ‘accontentandosi’ di una remunerazione migliore. Né mi illudo che le cose cambieranno dall’oggi al domani.
Mi auguro che i pastori approfittino dell’unione che si è generata e la trasformino in strumento di cooperazione per il futuro.
Solo un appunto: se è in Ogliastra non è nel nuorese!
Buongiorno Carla, intendevo dire che la zona geografica è l’Ogliastra e la provincia amministrativa è Nuoro :-)