L’agricoltura non è naturale, è umana. Questo è il problema

Agri-cultura: sapienza o sfruttamento?

Con il tempo ho capito che l’agricoltura non è un’attività naturale: è piuttosto un’attività culturale. Cioè un lavoro pienamente umano: una serie di azioni discrezionali che interagiscono (e interferiscono) con le funzioni della natura, cercando di inclinarla ai propri bisogni – originariamente primarî e legittimi.

Si tratta, per un verso, di un regime di ‘disturbo’ da parte dell’uomo, che addomestica suoli, piante ed esseri viventi, che di per sé si auto-organizzerebbero in un altro modo; per altro verso, di un’arte che esercita creatività, intelligenza ed esperienza inter-generazionali, allo scopo di nutrirsi con efficienza e sempre maggior qualità e valore. Questo in origine, quando sopravvivere e non sprecare erano due imperativi vitali e coincidenti, e a volte ancora oggi, ma solo nella migliore delle ipotesi. 

Un’arte tanto più nobile quanto più condotta con amore e conoscenza, senza depredazioni e senza arroganza. Esercitata con la preoccupazione di non stravolgere, deturpare, inquinare, ma semmai di rispettare, custodire, rigenerare. Praticata in ascolto e in relazione con gli altri organismi del cosmo che ci ospita. – Fine della filosofia –

Alla pseudo-misericordia preferisco il ‘limite’

Dal punto di vista etimologico, coltura e cultura sono la stessa parola: derivano da còlere, che significa coltivare, prendersi cura, avere culto. Ma non è scontato che l’agricoltura di oggi sia portatrice di questi significati.

Si parla spesso di un’agricoltura buona e di un’agricoltura cattiva, di un’agricoltura sensata e di una impazzita, inquinante, robotica, che sotto la copertura di un ambizioso obiettivo planetario, dalle sfumature misericordiose («dar da mangiare agli affamati»), ‘costruisce’ la stessa fame di chi vorrebbe sfamare.

Come mi disse un amico filosofo, parafrasando il motto di Expo 2015, Nutrire il pianeta: «Non siamo noi a nutrire il pianeta, semmai è lui a nutrire noi, se glielo consentiamo».

Da un lato ci sono tanti piccoli contadini – per la verità non tutti simili per intenti, pratiche e cultura: alcuni di loro sono operatori ambientalisti e agroecologisti, altri meno; ma sono comunque tanti piccoli Davide. Dall’altro c’è Golia, il gigante dell’agroindustria: un sistema di larga scala, altamente tecnologizzato ed efficiente, per cui produrre ortaggi o litri di latte non è tanto diverso dal fare bulloni.

C’è tanta letteratura che tratta o raffigura quello che sto dicendo, non ultimo il documentario che ho visto recentemente sul sistema del latte, The Milk System.[

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L’idea che mi sono fatta è che, quanto più l’attività agricola è votata a produrre reddito e quanto più la scala di lavoro è estesa, tanto più sarà necessario individuare il compromesso tra lo sfruttamento delle risorse e il rispetto delle stesse e tanto più sarà auspicabile, come direbbe Piero Sardo, porsi un limite.*

Ma porsi un limite vuol dire non solo produrre in quantità volutamente artigianale e contenuta, vuol dire anche valorizzare molto bene il prodotto, educando il mercato ad apprezzarne la differenza. Cosa che, nel mondo dell’agroalimentare, siamo tutt’altro che abituati a fare, se non in contesti élitarî.

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Fa forse eccezione il comparto del vino naturale, che da tempo ha deviato i propri luoghi di distribuzione, discussione e autocoscienza, sottraendoli alla grande distribuzione per conquistare fanbase parallele, canali underground e dichiaratamente ‘non conformi’.

L’inflazione dei termini e la sfida della comunicazione

Anche dal punto di vista linguistico, le distinzioni sono spesso molto opache e non sempre condivise. Da tempo i protagonisti sani del fantomatico settore primario sono in cerca di connotazioni terminologiche chiare e inequivocabili, di sistemi di garanzia condivisibili in cui riconoscersi e con cui orientare.

Faccio qualche esempio. Alcuni produttori mi dicono: «In agricoltura il termine naturale non vuol dire niente, perché alla base c’è sempre la natura, è ovvio». Altri: «In agricoltura il termine naturale è improprio, perché alla base c’è sempre l’uomo che, tra tutti gli esseri viventi, è il meno naturale».

La stessa Federbio mette in guardia i consumatori dai termini alternativi «di denominazione fantasiosa», privi del «minimo quadro di controllo» (fonte: Chi certifica il biologico).

Ormai termini come naturale, biologico, artigianale sono inflazionati e molto vaghi.

Anch’io, da comunicatrice, mi accodo, lamentandomi del fatto che ormai termini come naturale, biologico, artigianale sono, oltre che inflazionati, molto vaghi. Alla base, c’è sempre la nostra capacità di ricostruire un contesto, che richiede tempo e conoscenza. In compenso i sinonimi sono tutt’altro che facili da trovare, dunque comunicare e competere in modo sano, in una giungla di sfavillanti voci-esca, svuotate di significato, è una sfida sempre più alta e complessa.

Credo in un solo bio

Se per la legge può dirsi biologico ciò che è certificato da un ente accreditato dal Mipaaf, che ne verifica la conformità al disciplinare europeo vigente, in tanti si chiedono con quale termine possa essere definita, in modo ben più incisivo e riconoscibile, un’agricoltura sinceramente preoccupata dell’equilibrio e del destino ambientale, a monte della certificazione legale e dell’opportunità di marketing (che non è una parolaccia; ma spiace quando diventa il movente principale) e al di là della griglia di pratiche e prodotti ammessi e non.

In sintesi: come è possibile distinguere e riconoscere, nel mare magnum del bio, gli imprenditori agricoli che hanno fatto del biologico una scelta di vita?

Piantine biologiche
La filiera virtuosa di un piccolo produttore agricolo serio parte dalla scelta accurata delle piantine e, in certi casi, dall’autoproduzione dei semi.

Qui, in genere, i produttori che frequento si dividono: per alcuni, si può parlare di bio solo a partire dalla certificazione, per altri, si può parlare di bio anche a latere della certificazione.

Per alcuni il bio è una garanzia imprescindibile di terzietà, almeno rispetto alla semplice parola dell’agricoltore.

Per altri non è una garanzia sufficiente di terzietà; questo perché l’ente certificatore, pagato da chi viene certificato, sarebbe soggetto a un conflitto di interessi che non ne assicurerebbe la completa indipendenza. Per altri ancora sarebbe una forma troppo burocratizzata, che eccede in verifiche prevalentemente formali o amministrative, facilmente eludibili, e difetta in controlli di merito e di sostanza, molti dei quali peraltro difficilmente misurabili.

Per altri ancora si tratta di una normativa tarata sulla piccola e media industria alimentare, che non tiene conto del fittissimo mosaico agricolo italiano, fatto di tante piccole e microrealtà marginali, alcune di pregio inconfutabile, molte delle quali presidiano territori, tradizioni e artigianalità a rischio di estinzione. In pratica, il patrimonio di eccellenze locali che tutti ci invidiano.

A mio parere non tutto ciò che è biologico in senso normativo è necessariamente eccellente o meritevole di un’adesione a priori. Ne parlavo già in questo post, che ho recentemente aggiornato: È logico, è bio.

Votare quando si fa la spesa: la coperta corta

Sia che produciamo parte del nostro cibo, sia che ci limitiamo ad acquistarlo, quando compriamo, deleghiamo sempre a terzi la responsabilità di scelte che incidono sulla nostra vita e sull’ambiente. Fare la spesa – azione che svolgiamo in modo spensierato, ma che viene da expendere che significa pesare, ponderare – è un gesto di grande impatto, simile a quello di un mandato politico. Contadini e imprenditori agricoli sono i ministri dell’ambiente che vogliamo. Dovremmo misurare l’eleggibilità di un’azienda in termini di presidio territoriale, rigenerazione della fertilità dei suoli, benessere animale, efficienza energetica e organizzativa, economia circolare.

Ma non ci sono solo gli aspetti ambientali. Ci sono anche altri parametri importanti di impatto sociale, per esempio la capacità di generare lavoro, di riconoscerlo equamente e, nei casi più virtuosi, di svolgere un ruolo di solidarietà, formazione, trasmissione di abilità e saperi.

E ancora, sempre per la serie della coperta corta (chi mi segue negli Spesa umana Tour sa di cosa parlo, in alternativa potete leggere Perché non credo nella spesa consapevole): cosa significa sostenibilità ambientale e magari sociale, se poi un’azienda che vale tutto l’oro del mondo non riesce a sostenersi economicamente, vuoi perché le mancano le infrastrutture locali, vuoi perché il suo mercato potenziale non è educato ad apprezzarla o non ha la capacità reddituale per farlo?

Il cibo è un bene tutto sommato consumabile, dunque la portata dell’investimento a lungo termine (in salute e ambiente) è molto poco intuibile al momento di tirar fuori i ghelli o di scegliere con premura i propri canali di approvvigionamento.

Io per esempio mi batto per le filiere cortissime o brevi, perché credo sia l’unico modo per ricondurre il patto commerciale a uno scambio equo, reciprocamente sostenibile. Ma ci ho messo anni a ricostruire i miei itinerari e tuttora non sempre ricorro ad aziende biologiche.

Come se ne esce? Attendo risposte dai produttori, che esorto a comunicare il più possibile.

Foto di copertina: corolle di tagete e baccelli di fagioli borlotti. In agricoltura sinergica, il tagete si usa in consociazione con i pomodori. Foto della piccola fattoria in permacultura Cascina Brontola, PC, che ospito nella mia mappa dei produttori.

Foto al centro: piantine di pomodori nascenti, di cui sono visibili i cotiledoni ma non ancora le foglioline, sempre di Cascina Brontola, PC.

* Cito da Piero Sardo, Una parola d’ordine: darsi un limite, contributo contenuto nel volume miscellaneo che ha ispirato queste mie riflessioni: Le tre agricolture: contadina, industriale, ecologica, a cura di Pier Paolo Poggio, Jaca Book, Milano 2015.

5 commenti su L’agricoltura non è naturale, è umana. Questo è il problema

  1. Ciao, sono tecnico in Agricoltura Biologica, consulente alle aziende che si convertono dal convenzionale al biologico certificato. Condivido gran parte delle tue perplessità e vorrei contribuire con alcuni dati e con il mio personalissimo parere.

    Per quanto riguarda le piccole aziende cito Vandana Shiva: “Non dimentichiamoci che il 70-80% del cibo che sfama le persone nel mondo è prodotto da piccole aziende agricole familiari, non dalle grosse aziende dell’agribusiness”. Quindi penso che siano il vero futuro del cibo sostenibile. Avere una piccola azienda vuol dire essere molto consapevoli delle risorse del territorio e sicuramente è fondamentale non improvvisarsi, c’è davvero troppa poca formazione nei produttori agricoli, ci si affida troppo al caso e a quello che viene raccontato dai rappresentanti di prodotti per l’agricoltura, si studia poca biologia, poca fisiologia vegetale, poca entomologia e ci si perde in un bicchiere d’acqua, la sostenibilità economica diventa un miraggio a causa delle energie sprecate per semplice ignoranza. Anche solo la progettazione in Permacultura (www.permacultura.it e http://www.permaculturaitalia.net) avrebbe evitato enormi difficoltà a tanti, ma dico decine di giovani contadini che conosco e che sono stati fagocitati dai debiti.
    Poi le piccole aziende vivono grazie al rapporto con le persone, negli anni ho raggiunto la conclusione che il futuro sono le CSA, l’agricoltura supportata dalla comunità, ovvero il partenariato con chi condivide il progetto di una contadina o un contadino e poi attiva il passaparola.

    Per la cronaca, non c’è solo la certificazione biologica europea, esiste anche la possibilità (perfetta per i piccoli contadini) della certificazione partecipata (supportata persino dall’AIAB) che prevede che non sia solo il contadino stesso a garantire le pratiche biologiche, ma sia tutta la comunità di riferimento (quindi i suoi clienti/partner) a certificare insieme l’impegno alla coltivazione ecologica senza pesticidi. Questa la mia esperienza.

    1. Cara Anna, ti ringrazio molto per questo tuo prezioso contributo.

      Sono anch’io persuasa che la fame nel mondo si combatta rendendo più autonome piccole comunità. In un articolo a proposito del sistema del latte, citavo il documentarista Andreas Pichler, che in ‘The Milk System’ riferisce: «Nel 2008 l’ONU ha commissionato uno studio per fare il punto sull’agricoltura mondiale. 400 scienziati sono giunti alla conclusione che il fattore decisivo per combattere la fame nel mondo non è l’aumento della produttività, ma la disponibilità di alimenti e la possibilità di produrre sul posto. Quindi la chiave per garantire l’accesso ad alimenti a livello globale sono le piccole aziende agricole; ma la grande industria agraria respinge queste conclusioni».

      Grazie anche per la conclusione sulla garanzia partecipata, non sapevo che l’AIAB la sostenesse. A proposito di CSA, ho partecipato recentemente a un evento con Stefano Scarascia, tra i soci fondatori di Arvaia Bologna, in cui faceva il bilancio della loro esperienza di CSA, che si sostiene e procede da ben 5 anni – cosa non scontata. Molto incoraggiante; è pur vero che lui stesso ammetteva che si tratti di un’esperienza militante, a cui per accostarsi serve un lavoro di rieducazione delle abitudini e coscienze: chiunque si accosti alla CSA con un approccio ‘da comsumatore’ rimarrebbe deluso. La strada è lunga insomma, ma la presenza di esempi e modelli che funzionano e stanno in piedi – un altro sono le FoodCoop – ci fa da faro e trasmette buoni semi.

    2. Sta per nascere una piattaforma online gratuita dove, anche da app, si può caricare su un server tutti i registri come si fa ora in cartaceo con gli organismi di controllo del bio.
      La cosa interessante è che viene registrata data e ora è non è possibile modificare.
      Sto seguendo da poco il gruppo che intende sviluppare questo progetto. Mi hanno parlato di una garanzia partecipata dove i soci stessi del gruppo andranno a fare a sorteggio le ispezioni dagli altri iscritti. Tutto gratis.

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