Meglio la mela di Adamo o quella di Biancaneve?

A proposito di mele lucide, strati di paraffina, residui cerosi che prendono fuoco. Per capire, in pratica, se è meglio pelare le mele oppure no, e se ci si può davvero fidare della buccia delle mele bio.

Siete in troppi, in questo periodo, a chiedermi lumi sulla scottante questione delle mele incerate, a partire da un video, subito virale (oltre trecentomila visualizzazioni in un mese), che denuncia la presenza di una non meglio identificata ‘cera’ sulla buccia di alcune mele biologiche, nella fattispecie commercializzate da Esselunga Bio.

La questione può dirsi scottante anche perché nel video questa ‘cera’, accostata alla fiamma dell’accendino, prende fuoco. Ed è subito allarme. Ma prendiamola un po’ più larga e cominciamo a parlare di ceratura nei sistemi di produzione tradizionali, non bio.

Apple coating ossia: Dare il lucido

Se si cerca su Google “cera per mele”, si trovano diversi spacciatori, tutti autorizzati. Tra i prodotti consentiti, quello più diffuso è la gommalacca naturale, una resina organica. Inodore e insapore, è annoverata tra gli additivi alimentari (E904) e può essere applicata con vari metodi, più o meno industriali e più o meno complessi (nebulizzazione, macchina ceratrice).

Il film protettivo assolve contemporaneamente a diversi scopi: ridurre la perdita d’acqua (ossia di succosità e peso), migliorare la brillantezza e dunque la presentazione, prolungarne la conservabilità.

In alternativa, potrebbe essere usata anche la cera d’api o la paraffina, che è un derivato del petrolio. Questo per rimanere a ciò che è legale in Europa ma pur sempre, sia chiaro, nell’ambito dell’agricoltura convenzionale.

Il mercato dei consumatori è maturo per rinunciare alla frutta perfetta, lucida, miracolosamente sferica?

Se ci spostiamo di continente, si sa, le cose cambiano. In America, per esempio, è ammessa anche la morfolina, il cui nome già da solo incute un certo timore, che nella comunità europea (cioè non in tutta Europa) è illegale dal 2008.

Per ogni ulteriore approfondimento vi rimando a un blog di patiti della frutta e del salutismo, molto simpatici, dove ho letto per la prima volta la parola “carpotecnica”.

La frutta biologica

Veniamo alla frutta che ci interessa. Quella genuina, che non ha subito processi di adulterazione, né pre né post raccolta; ma anche che, al contempo, è sopravvissuta ad attacchi parassitari e fungini, altrimenti non arriverebbe sino a noi, né ci converrebbe mangiarla.

Cosa è ammesso, cosa non è ammesso? E, al di là dei disciplinari, cosa è opportuno? Vogliamo capirlo innanzitutto dai produttori stessi.

Cominciamo con una bella pagina chiarificatrice a cura di Biomela, azienda trentina biologica da trent’anni. Una realtà che immaginiamo eversiva e resistente, in val di Non, dove negli ultimi decenni la coltivazione intensiva delle mele ha drasticamente condizionato e violentato il territorio.

È la pagina delle loro Domande frequenti, con in coda una sfilza di Vero/Falso che potrebbe mettere alla prova diverse nostre convinzioni o anche solo regalarci qualche curiosità. Ne estrapolo qualche passaggio:

Per quanto concerne la mela, non è consentito in agricoltura biologica alcun trattamento di conservazione, ma soltanto l’utilizzo del freddo e dell’atmosfera controllata.

Inoltre,

per produrre le mele con il metodo biologico, si cerca di stimolare la resistenza della pianta, e quindi del frutto a varie malattie.

Motivo per cui la mela coltivata con metodo biologico si conserva spesso «meglio e più a lungo», perché «non è stata forzata nella sua crescita» e viene anche «irrigata di meno».

La pruina

Se facciamo un giro sulla loro pagina Facebook, leggiamo un post in cui l’azienda prende una precisa posizione sul tema della cera:

La buccia della mela contiene delle cere naturali. Il frutto le produce per proteggere la sua epidermide da tutti gli agenti atmosferici che nei suoi lunghi mesi di permanenza sulla pianta deve sopportare: dai freddi primaverili al forte sole estivo, al freddo autunnale prima del raccolto.

Si sta parlando della pruina, una sostanza cerosa e impermeabile che ricopre e protegge naturalmente la cuticola del frutto e delle foglie, nella mela così come in tanti altri frutti (prugne, uva). Sulla susina violacea, per esempio, è ben visibile come patina bianca sulla buccia scura. In alcuni casi l’affiorare di questa patina – biancastra, opaca e non lucente – potrebbe, paradossalmente, essere proprio indice di bassa manipolazione.

NB. Nel frattempo la signora Bonetti, titolare di Biomela, si è resa disponibile a risponderci direttamente sul tema. Ne è scaturita una bella intervista.

Altre fonti

Stessa posizione di difesa assume Federbio, Federazione Italiana per l’Agricoltura Biologica e Biodinamica, in un post sulla sua pagina FB, dove elenca una serie di link di controinformazione e replica sul tema, tra cui spicca un post di Bufale.net (articolato ma illeggibile, per la presenza di tutti quei banner e video pubblicitari che sistematicamente “scassano” la pagina, oltre che l’audio).

Se si ha la pazienza di seguire il filo di tutte le repliche, ne risulta che qualsiasi sostanza cerosa rintracciabile sulla buccia delle mele bio è prodotta dal frutto stesso e, sì, può persino prendere fuoco (non mi addentro nelle questioni chimiche, ma in rete c’è chi lo fa). Diverso è, invece, per la produzione convenzionale, dove la procedura dell’Apple Coating è all’ordine del giorno, vedi sopra.

Nel frattempo, sul sito di Federbio è uscito il comunicato ufficiale che aspettavamo. 

Per orientarsi

In conclusione: fino a prova contraria, nell’agricoltura biologica la cuticola dovrebbe sempre essere naturale e la cera eventualmente rintracciabile può essere solo quella prodotta naturalmente dalla pianta stessa: la pruina.

Come si fa a verificare? Non si può. Anche la pruina, in virtù della sua conformazione cerosa, può bruciare. L’unica è selezionare bene il fornitore, chiacchierarci e poi, se ci sono i presupposti, fidarsi. Oppure fidarsi e basta. Oppure sbucciare sempre e comunque.

Cosa che io faccio spesso, a prescindere dalla fiducia: dal punto di vista nutrizionale, so di rinunciare a parecchi nutrienti e fibre; ma solo così il mio intestino, molto delicato e leggermente disbiotico, assimila il frutto senza produrre gonfiori o fermentazioni. I nutrizionisti, lo sento, avranno di che replicare

La domanda finale e provocatoria, però, sposta la questione su un altro piano. Siamo maturi, noi acquirenti, per rinunciare alla frutta perfetta, lucida, miracolosamente sferica? E magari tollerare qualche difettuccio o imperfezione estetica, a favore di salubrità e genuinità? O vogliamo le mele di biancaneve?

Immagine di copertina: There’s not just one kind of apple, Paderna (PC), Fiera dei fiori e frutti antichi 2012, © Eleonora Festari.

2 commenti su Meglio la mela di Adamo o quella di Biancaneve?

  1. Come si fa a verificare? Si può, si può. Se ti fidi di un amico perito agrario o che abbia studiato scienze agrarie chiedi a lui (come avrebbe dovuto fare anche l’autore del video, per capire se era cosa da pubblicare).
    Ti dirà che le mele (alcune, come le Red Delicious di montagna molto più di altre, ma ci sono anche varietà locali dal nome eloquente di Cerina o Oleosa) producono da sè uno strato ceroso protettivo.

    Oppure porti le mele ad analizzare presso un laboratorio accreditato. Se il referto ti dice che è cera autoprodotta hai speso dei soldi, ma hai risparmiato la brutta figura di postare un video che è una bufala.
    Se ti dicono che ci sono additivi, corri dai NAS e segnali il reato, da buon cittadino.

    Mai, invece, mai devi postare un video su un argomento che non conosci (dandolo in pasto ad altra gente che non ne sa nulla) accusando di frode in commercio un agricoltore e una catena di distribuzione senza alcuna prova: è un comportamento irresponsabile ed è diffamazione (un reato).

    Molto meglio questo video: http://www.youtube.com/watch?v=LvCCVEnLz-I

    1. Grazie del commento, Roberto. E del contro-video :) Io adoro le parodie, è una forma di pedagogia ilare, spesso molto efficace.
      Il web è un po’ questo: tanta informazione, accessibile e ‘generosa’, la cui attendibilità è più nelle mani di chi la riceve, che di chi la emette. A dispetto delle apparenze, la pigrizia non è ammessa (su internet, così come ovunque); è stimolato, semmai, il discernimento.
      Di tutto il polverone scatenato, terrei comunque per buona l’occasione di approfondimento.
      In ogni caso il compito di questo progetto è interpellare chi produce, affinché ci orienti e dia strumenti di attenzione. Dunque spazio e voce ai produttori, qui e nella nostra spesa, il più possibile.

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