Da tempo avevo iniziato a seguire la Raccontadina su Facebook, innanzitutto perché trovavo geniale il nome; poi, perché leggevo i suoi post e sentivo in filigrana ‘la vena’.
Francesca Pachetti, alias la Raccontadina
La corteggiai un po’ via Messenger e finalmente una mattina riuscii a intervistarla per telefono. Volevo capire se potessi invitarla nella mia mappa dei produttori, dove setaccio i piccoli, gli ostinati, i credenti nella resurrezione continua della natura. Sentivo che Francesca – nel frattempo avevo scoperto il suo nome – avrebbe potuto a buon diritto esserci.
Durante la conversazione, ascoltavo sì cosa mi diceva, ma ero molto distratta da come lo diceva. Dopo qualche minuto di chiacchiere, le dissi: «Tu sei un Autore» – così, al maschile, come archetipo. Detto da una che ha lavorato nell’editoria, vuol dire: sei un fiume, hai il flusso, ti accendo e parti. Presi qualche appunto dalle sue parole, dopo poco la inserii orgogliosamente nella mia selezione dei produttori e per un po’ finì lì.
Pentàgora
Finché l’Autrice Francesca Pachetti – non più un archetipo, ma un nome anagrafico riconoscibile – ha trovato davvero la sua Casa. Che vuol dire, sempre detto da una che ha lavorato nell’editoria eccetera, che ha trovato il ‘suo’ editore, il suo catalogo, quello tra i cui titoli si colloca perfettamente, cioè: Pentàgora, il laboratorio editoriale diretto da Massimo Angelini.
Pentàgora è un punto di riferimento per tutti coloro che si occupano di micro-agricoltura, di biodiversità, di tradizioni e storie rurali. Il catalogo è molto vario e ben ripartito tra narrativa e saggistica, con titoli anche molto diversi, ma coerenti nello spirito e nella vocazione (mi vengono naturali questi termini, non credo sia un caso).
Ospita autori come Jean Giono, Pierre Rabhi, Alessandro Marenco, Salvatore Ceccarelli, lo stesso Angelini e altri. Nei libri che ho letto, la cosa che emerge più evidente – pur nella differenza degli stili – è che non c’è mai contraddizione tra terra e poesia, tra cultura materiale, artigiana, e cultura dotta: sono tutti lembi che possono convivere, cuciti insieme nella stessa brossura.
È un editore che parla di cura fin dalla confezione tipografica, che stampa su carta ecologica (ma la prima vera forma di ecologia è scegliere cosa stampare), che ringrazia per nome chi ha letto il libro prima che vada in tipografia, che mette l’e-mail dell’autore per renderlo accessibile ai lettori. Un editore che tra i suoi criteri dichiara:
Libri dedicati al mondo rurale e alle persone che lo fanno vivere; ma anche a storie, costumi, affetti della gente comune, e a sguardi disallineati con i miti, le mode e le monoculture di questo tempo.
Zappare sogni
Francesca è disallineata fin dalla copertina. Il titolo ufficiale del libro è: La Raccontadina. Racconti a passo di vanga. Bello, penso. Ma l’immagine raffigurata è quella di un murales, con una scritta che assume la forza perentoria di un titolo: Prima di coltivare sogni impara a zappare.
È un monito ironico, penso. O forse, al contrario, severo. Lo traduco così: prima di salire, devi scendere, devi scavare. Mi ricorda Virgilio a Dante, quando, subito all’inizio, lo guida altrove: «A te convien tenere altro vïaggio… se vuo’ campar d’esto loco selvaggio». Cioè: Non per di là, di qua – dal basso devi passare.
Del resto è proprio quello che Francesca scrive a un certo punto, immaginando di rivolgersi alle bambine che giocano nel suo campo, «dove c’è lo spazio anche per i bambini e le bambine» e dove «ciascuno coltiva il suo pezzo di terra».
Le bambine «da grandi vogliono fare le principesse, intendendo ricchi vestiti, alte corone, vasti terreni e soprattutto aspettano il principe: alto, bello, ricco».
… Vorrei dire loro che Biancaneve la corona e tutto il resto l’ha indossata dopo. Solo dopo. Dopo aver attraversato il bosco, di notte, accompagnata esclusivamente dalle sue paure appollaiate su e tra i rami degli alberi, pronte a spaventarla a ogni passo, cercando di scoraggiare il suo andare, cercare. È dovuta entrare al suo interno, guardare, dialogare, scoprire e infine amare alcune parti di sé, quelle nascoste …
Colloqui, suoni, stagioni
Se dovessi recensire il libro di Francesca dal punto di vista letterario, direi che è prosa molto scorrevole, colloquiale, asciutta nella forma, ma lirica nei contenuti – di un lirismo però non ostentato, schietto. La sua scrittura è piena di figure retoriche, legate ai significati (metafore, trasposizioni), ai suoni (allitterazioni, assonanze, anadiplosi) o a entrambi, con tanti jeux de mots.
Giusto spigolando: bellissimo per esempio il richiamo tra rammendare e rammentare, o tra racconti e raccolti, la pseudo-etimologia di ‘seme’, quella di ‘contadino’, di ‘trascendere’, fino a quella conclusiva di ‘trame’. Non ne svelo nessuna.
Costantemente, emerge la forza figurativa della sapienza rurale, con immagini vivide e molto efficaci:
Il coraggio, si sa, è come la prima ciliegia matura: o la cogli subito o passa il merlo e la prende lui.
La struttura del libro è articolata in stagioni: Inverno, Presto Primavera, Estate, Autunno, La Stagione in più e infine di nuovo Inverno, a suggerire una ciclicità che non tradisce. «Non c’è un inizio e non c’è una fine», dice Francesca in una delle pagine finali.
Ma in questa sequenza apparentemente prevedibile, non c’è nulla di scontato: le stagioni esterne a volte riflettono quelle interne, a volte no. L’Autrice stessa si definisce «una contadina gravida di tutte le stagioni».
Salve, mi dica
Molti dei racconti mettono in scena lo scambio reale con i clienti, in una sorta di sceneggiatura ricorrente, ma con dettagli sempre nuovi e imprevedibili. L’inizio è sempre una cosa tipo:
– Buongiorno.
– Salve, mi dica.
Poi segue il racconto dello scambio, che di volta in volta prende pieghe differenti e genera un ampio campionario di battute e umanità. Non si capisce se i dialoghi siano immaginari o testuali, ma non importa, la rappresentazione è senz’altro fedele.
I personaggi sono tanti identikit di noi acquirenti, spaesati di fronte ai frutti della natura, alle stagioni, alla ricchezza che confondiamo per povertà. La cosa più bella è il misto di dialogo e pensieri, la dialettica continua tra Francesca e chi compra, ma anche tra i suoi pensieri e le sue parole.
Francesca risponde sempre in modo piuttosto asciutto, ma generoso (è un ossimoro che vale per tutto il libro); più che a tono, direi in modo paziente e caritatevole, impercettibilmente didattico, con il magistero non della cattedra ma dell’esperienza. Esperienza anche di sentimenti e passioni – che affiorano spesso, ma senza elementi biografici precisi. C’è molto riserbo, quasi a contenere la nostra curiosità. Forse le storie personali non sono così importanti, forse le storie non sono così personali.
A Francesca tocca insegnare, farci vedere ciò che noi non vediamo, sappiamo, capiamo. «Non credo sia gentilezza, forse, comprensione». È una forma di carità discreta, concreta.
– Hai solo questo?
– In questo momento sì: rapini, bietola e cavolo nero, dalla prossima settimana saranno pronti anche cavolfiori, radicchi e finocchi.
– Quindi hai solo questo?Va bene, tu vedi ‘solo questo’. Posso dirti invece cosa ci vedo io?
Io ci vedo: una frittata e una torta di bietola, una zuppa toscana di cavolo nero, rapini bolliti e saltati in padella, che se poi uno vuole e le ha, ci aggiunge pure due salsicce, un bel piatto di orecchiette con le cime.
Ci vedo il pranzo e la cena per almeno una settimana, la pancia piena.
L’assenza di fame, l’abbondanza.
…
Ed è così che, cercando l’impossibile, ci si perde tutto quello che invece è possibile.
Poi ci sono anche signori anziani simpatici, che a loro volta hanno da insegnare. E sono quelli a cui Francesca, anziché rispondere, chiede.
Eccetera. Non voglio citare troppo: è un libro che non ha senso piluccare, si legge in un fiato. È costituito da piccoli racconti brevi, anzi minuscoli, come minuscola è l’iniziale dei titoli – quasi a sottolineare l’umiltà dimessa, non arrogante, della sapienza contadina.
L’incontro dal vivo
Quando ho conosciuto Francesca di persona, era una calda giornata di inizio luglio, cielo sgombro e terso. Avevo paura di disturbarla, ma nello stesso tempo volevo che mi riempisse la cassetta di frutti, le orecchie di parole. Cercavo da lei quella che io chiamo spesa umana, che è sempre un incontro, uno scambio che va ben oltre quello di prodotti e di denaro.
È stata subito molto franca: «Non mi sento una scrittrice. Per me scrivere è come coltivare. Anziché lavorare in campo, semino le parole sul foglio. Per me non c’è differenza».
Chissà se Francesca conosce l’indovinello veronese,* penso. Una delle prime attestazioni in lingua volgare, scritta all’inizio del IX secolo da un amanuense della Biblioteca Capitolare di Verona, probabilmente come prova di penna.
Lo scriba, riportando una tradizione preesistente, raffigura la scrittura con la metafora dell’aratura. Non è una similitudine solo figurativa: nella Storia, la scrittura è sempre stata un’attività artigiana, operaia, faticosa. Un lavoro strumentale, del corpo chino e della mano ferma.
Proprio così mi ha detto Francesca: «Come semino, scrivo». Del resto le parole sono semi è anche il titolo di uno dei racconti.
Ho pensato che le parole le porta via il vento, ho cercato allora il modo di farle restare e germogliare.
Per seguire o incontrare Francesca
Su Facebook, Francesca è un’autrice costante e feconda. Seguitela sulla sua pagina La Raccontadina.
Per chi avesse la fortuna di passare o soggiornare in Versilia, Francesca si divide tra i suoi due campi a Montignoso, al confine con Forte dei Marmi. Aria di mare e vista Apuane.
Visualizza la Raccontadina sulla Mappa di ConsideroValore.

Le foto di questa pagina sono mie o di Mauro Accatino, gentile sodale di viaggio.
Per chi volesse comprare il volume, suggerisco l’e-commerce riminese Il Giardino dei Libri, che promuovo con un link affiliato.
* Ecco il testo dell’indovinello veronese:
Se pareba boves, alba pratàlia aràba
et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba.
Che grossomodo vuol dire:
Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati,
e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava.
La lingua non è già più il latino, anche se gli somiglia: è qualcos’altro, che i linguisti poi chiameranno volgare romanzo con inflessioni veronesi. Il distico fu decodificato all’inizio del Novecento dal filologo Luigi Schiapparelli, ma con l’aiuto di una sua allieva, la quale conosceva una cantilena popolare molto simile.
Era un po’ che non ti leggevo, ma oggi hai finalmente accompagnato il mio secondo caffè. Quanto è bello questo tuo racconto, grazie! E quanto è bella la tua scrittura.
Libro in lista dei desideri, come diversi altri di Pentagora. Non conoscevo affatto la Raccontadina, e quindi grazie di nuovo :)
Carissima Clauda, grazie di questo tuo passaggio non silente. Una tazza continua ci accomuna, e non solo. Confermo la predilezione per Pentàgora e la gioia che ancora qualche piccolo editore indipendente esista, a garanzia di biodiversità culturale. E poi Francesca ha qualcosa da dire. Spero a presto!