Anche quello delle emozioni è un sistema metabolico, del tutto simile a quello del cibo: richiede l’assimilazione di emozioni sane e nutrienti, e il corretto drenaggio di quelle tossiche. C’è chi parla addirittura di dieta emozionale. Qui è dove racconto come sono risalita a un’emozione radice (che non avrei mai voluto vedere) e l’ho espulsa, alleggerendomi.
Con questa mia vorrei salutarti. Cosa che, in quel dicembre 1985, non riuscii a fare.
L’incidente avvenne il 30 novembre, un sabato sera. Tu ed io vivevamo a Piacenza con i nonni. Mi ricordo piuttosto precisamente lo squillo del telefono nel cuore della notte. Rispose la nonna e nel giro di qualche secondo si mise a singhiozzare. L’uscita traumatica dal sonno, la sensazione immediata che fosse successo qualcosa di grave, il tempo di girarmi verso il tuo letto e vedere che era vuoto.
Di tutto questo ho memoria piuttosto nitida, soprattutto visiva: la stanza in cui dormivamo, un soggiorno adibito a camera da letto. Detto così sembra una situazione compressa e rimediata, e forse lo era, ma noi ci stavamo bene. A Piacenza, dai nonni, stavamo dove volevamo stare e non ne abbiamo mai fatto una questione di spazio – anche perché allora, sinceramente, non usava.
Da quel momento in poi ho ricordo molto vaghi. La prima cosa che mi affiora — o meglio, che non mi abbandona — è del venerdì seguente, il famoso 6 dicembre, di pomeriggio. Con Debora, la mia migliore amica, eravamo in giro per il quartiere della Lupa: ridevamo e cercavamo di distrarci. A 13 anni era l’unica cosa normale da fare, e forse anche la più intelligente.
A un certo punto vediamo in bici un tuo amico, che non rideva per niente. Lì ho intuito che forse lui sapeva qualcosa che io non immaginavo ancora. Almeno fino a quella sera, quando ricevetti la telefonata definitiva.
Non ricordo chi di preciso mi diede la notizia; forse la mamma, dall’ospedale di Brescia dove eri ricoverato. Se non sbaglio, la ricevetti in casa dei nostri vicini di pianerottolo, che mi ospitavano in quei giorni in cui ero rimasta sola a Piacenza. Ricordo solo qualcuno intorno dirmi: Lo avevo già saputo, ma ho aspettato che te lo dicesse la tua famiglia. Era il 6 dicembre: in ospedale avevi resistito una settimana, poi sei volato via.
[…]
Di lì in poi, sono passati trentacinque anni fino al mio ritrasferimento qui: 1985–2010. Anni di cui ho più o meno digerito tutto. Persino il trasloco a Milano l’anno successivo, nell’86: la cosa più traumatica e, dal mio punto di vista, ingiusta che potessi subire; ma alla fine me la sono vestita addosso e probabilmente l’ho presa come un diversivo, un’avventura. Che però a un certo punto è finita. Perché ogni vestito, anche quello meglio cucito addosso, rimane pur sempre un vestito.
E così nel 2010 torno. Però non dove abitavamo allora, a Piacenza città; volevo andare oltre, verso qualcosa di nuovo. Come scrive G. Contini nel suo Breviario: «Ci mancherebbe altro che si dovesse rifare la propria vita (semmai, precisamente, uno attenderebbe a produrre altro e nuovo)».*
Il nuovo per me in quel momento era rappresentato dalla natura, dall’ossigeno, dalla vicinanza di un fiume che scorreva: tutte cose che erano riunite in quella provincia in cui mancavo dalla terza media e dove mi sentivo stranamente a casa, pur non avendo mantenuto alcun contatto da allora — a parte quello con Debora, l’unica persona che serba tutta la continuità di me, dall’inizio.
Nel 2012 vivo qui da due anni e ho un problema di salute (morbo di Basedow) che si manifesta in modo piuttosto acuto. Ho accumulato molto stress da lavoro e contemporaneamente è iniziato forse un tempo di rilascio, in cui la mia tipica compressione tiene molto meno. Quando nel febbraio mi si allaga la casa, è la goccia che fa traboccare il vaso. Inizia a uscire acqua ovunque, anche metaforicamente. Frana tutto.
Nello stesso anno conosco una terapeuta, Sophie Ott,** che mi aiuta molto e a cui sono convinta di dovere la mia guarigione (anche se lei probabilmente mi direbbe che è l’organismo stesso a guarire, che lei mi ha solo aiutato a trovare la via). Inizio a seguirla un po’ ovunque, anche in percorsi un po’ più laterali rispetto alla mia vicenda propriamente clinica. Per esempio faccio un seminario sul ‘peso forma’, che io avevo perso da mo’, complici anche le cure del morbaccio che interferivano sul metabolismo.
In questo seminario mi aspettavo di lavorare su tutto, fuorché in profondità sulla stiva di emozioni che erano sepolte in me dagli anni Ottanta. Il secondo giorno, Sophie ci fa fare un esercizio scritto: non ricordo esattamente cosa chiedesse, so solo che a un certo punto suggerì che si potesse anche disegnare. Bene, perché dalla testa non mi stava sgorgando niente e rischiavo di lasciare il foglio bianco.
Qualche secondo e mi sorpresi a disegnare (cosa che facevo da bambina e poi non ho più fatto) e ancor di più a vedere che dalla penna emergevano dei quadretti familiari. Situazioni della nostra famiglia prima che tu morissi, anche di tutti noi 5 insieme. In uno degli schizzi eravamo solo noi due, in vespa: io mi abbandonavo tranquilla e orgogliosa alla tua schiena, mentre mi accompagnavi a scuola. Stavo bene e mi sentivo protetta, sostenuta e spensierata. Tu eri carino, sportivo e io ne andavo fiera.
Il passaggio successivo dell’esercizio sarebbe stato mettere da parte quel foglio, per poi bruciarlo la sera stessa, in una specie di rito psicomagico liberatorio. Ma io pensai che il disegno era molto bello, anzi unico, e lo conservai, a memoria di quel momento in cui il mio sentire aveva partorito liberamente quei ricordi, quelle sensazioni, quei desideri — forse di bambina, forse di donna.
Nell’ultimo esercizio del secondo giorno invece bisognava lavorare su una paura. La prima paura che ci sarebbe venuta in mente. Di primo acchito avevo pensato di lavorare sulla mia paura di esprimere le emozioni (che ho spesso, per non dire sempre).
Poi però, mentre serbavo quest’idea, me ne è affiorata un’altra: la paura dell’abbandono, e con quella alcuni ricordi di fidanzati con cui è poi finita, più o meno malamente (più o meno fidanzati). Sentivo questa paura come ugualmente forte alla prima, se non più forte. Al momento di dichiararla è prevalsa quella sensazione e così, affidandomi alla compagna che avevo di fronte — Sophie ci aveva messo a coppie — ho dichiarato: «Paura dell’abbandono!».
L’esercizio consisteva in una sequenza di domande incalzanti, a catena, che l’altro doveva farti da vicino, anzi nell’orecchio, per risalire a una specie di paura-radice. Avevo di fronte una ragazza gentile, anche se adesso non la ricordo di preciso. Nella sequenza di domande a raffica, quella che inizialmente sentivo come una semplice paura diventava via via sempre più spaventosa e intensa, fino a trasformarsi in una specie di angoscia. Mi è venuta subito a galla la sensazione e paura fortissima che se fossi stata abbandonata sarei rimasta sola, sola a occuparmi di una serie di problemi, che mi avrebbero schiacciato come un peso enorme e allontanato dai miei desideri più veri.
Mentre affioravano queste emozioni mi è comparso un film precisissimo, a ritroso fino ai miei 13 anni. In realtà, più che un film era una sequenza sincronica e concentrata come in un lampo, un condensato di emozioni. Al termine di quel film, senza volerlo, ho preso contatto con un ‘punto di partenza’ e una persona precisa. Quella persona eri tu.
Ho sentito di avercela con te perché eri morto e perché, morendo, mi avevi abbandonato. Ero piena di rancore. Mi avevi mostrato una vita così bella, dinamica, piena di vento e libertà, e poi me l’avevi strappata improvvisamente, costringendomi a soffrire e a occuparmi di un sacco di grane francamente sproporzionate alla mia età e al mio ruolo.
Quando questo ‘incontro’ mi è affiorato alla coscienza, ero molto dispiaciuta di realizzare che avevo un risentimento verso di te e che lo coltivavo da quasi trent’anni senza saperlo. Tu non avevi colpa, eri morto innocente e all’improvviso, e non avevi voluto certo farlo. In più io ti avevo sempre visto come un figo — pur nell’amore-odio tipico tra fratelli, tra l’altro di sesso diverso e agli antipodi dell’adolescenza, io sulla soglia e tu alla fine.
Eppure tu, tu eri il primo responsabile di una serie di pesi a catena che di lì in poi avrei portato e di sconforti che si sarebbero scavati in me come solchi. Se abiti in cielo, dove spesso noi sopravvissuti pensiamo i morti (a mo’ di droni), sicuramente avrai visto anche alcune scene familiari a cui mi riferisco — che sarebbe dolorosissimo raccontare, anche se a volte le rivedo.
Durante l’esercizio sono esplosa in uno sfogo incontenibile: sono usciti pianto e rabbia, che sono in particolare le emozioni che non mi consento mai. Mi è sembrato di vedere un nodo genitore, un’emozione-radice e, senza poterlo scegliere né volerlo fare, l’ho espulsa.
[…]
Alla fine di quell’esercizio pensai che ti avrei scritto, poi avrei bruciato la lettera e l’avrei seminata a mo’ di concime nel giardino della casa dove abitavamo insieme fino a quel sabato sera. Non credo di averlo mai fatto. Ma ancora recentemente un’altra terapeuta mi ha indagato alcune emozioni e, trovandone una che ti riguardava, mi ha suggerito di scriverti una lettera per darti il saluto che allora mancò tra di noi. Eccolo.
– – –
La morte esiste di due tipi. Nel primo tipo ti saluti, nell’altro no.
Nel primo tipo, c’è la morte in cui sai già che sta per finire, che l’altro a breve non ci sarà più («è terminale», si dice; qualifica che di per sé sarebbe applicabile a chiunque, salvo che in quella circostanza diventa cruda e ti tocca). Di fronte all’altro lo sai già: anticipi il peso della separazione e un po’ lo condividi con lui, anche se magari a sua insaputa. In questo tipo di morte vivi il dolore sia prima sia dopo, e in qualche modo la sofferenza anticipa il lutto.
Poi c’è il tipo di morte in cui l’altro scompare all’improvviso, senza continuità con quello che era successo fino a un momento prima. È una separazione netta, recisa, che si aggiunge all’altra, della vita vera e propria, e la carica di qualcosa di ulteriormente incompiuto. Quel congedo mancato è una lacuna che ti resta addosso e che cercherai sempre, inconsciamente, di ricucire in tutti i modi. Ogni non finito, ogni parola non detta o mancata, anche in altre relazioni che fisiologicamente finiscono o cambiano forma, ti brucerà addosso.
* G. Contini, Breviario di Ecdotica, Milano-Napoli 1986.
** Puoi consultare i seminari della dott.ssa Sophie Ott sul suo sito Bioconsapevolezza.com. Avevo già avuto occasione di citarla nel post 13 bufale da sventare sul cibo sano o presunto tale.
Foto di copertina: Orsacchiotto seduto sopra una lettera, © Marina Shatskih. Disegno centrale: rielaborazione da una clipart di Pixabay: ‘Piaggio Vespa 125 Sprint’.
Ho trovato interessante la sua testimonianza. La ringrazio inoltre per il riferimento al medico che l’ha aiutata.
Grazie a lei, Aurelia, del suo passaggio non silente.
Il Titolo, ammetto, mi evocava questo: l’idea del fine vita o della vita senza un fine. Ovverosia del distinguo tra l’interruzione della vita corporea (al di là delle dinamiche del come e degli accadimenti specifici e personali) – in termini diagnostico medici diremmo: la cessata attività del cuore –, comparata con una forse ancor più pericolosa interruzione, del saper percepire ancora il battere del proprio cuore (anche non fisicamente, bensì metaforicamente, e nonostante il tutto il resto). Questa seconda eventualità è un grosso sconveniente di cui l’umanità intera soffre, non c’è altro che dire.
Sebbene una vita prematuramente interrotta sia un evento tragico, che sfugge ai comuni tentativi di rappresentare i significati della vita tutta, aggiungo tuttavia (sempre appellandomi al titolo dell’articolo) una sottolineatura, attraverso le parole di Rita Levi Montalcini, che sosteneva circa questo:
In circostanze ordinarie, non è importante aggiungere giorni alla nostra vita, ma
piuttosto trovar maniera di aggiungere ‘Vita’ ai nostri giorni.